Il prefisso telefonico dell’area metropolitana di Miami è 305, e se nasci, cresci e diventi uno sportivo di successo a South Beach come Udonis Johneal Haslem l’appellativo di “Mr 305” è un’investitura. Lui preferisce farsi chiamare “UD” mentre i tifosi lo inneggiano al grido di “Captain U”, fatto sta che pochissimi giocatori hanno saputo ergersi a icona sportiva della propria città Natale divenendo con il passare degli anni il simbolo e l’orgoglio della propria comunità, partendo dal basso e diventando un punto di riferimento per gli altri.

Perchè Udonis è nato nel giugno del 1980 in un ospedale a pochi passi dall’American Airlines Center ed ha vissuto i primi 10 anni della sua esistenza a Liberty City, il quartiere più duro e più cruento di South Beach, il circolo ricreativo delle band di strada che regolano i propri conti versando fiumi di sangue.

L’infanzia del giovane Udonis non è stata affatto semplice. Sua madre, Debra Haslem, si faceva di crack quotidianamente per le strade del quartiere, tanto da spingere il padre a ripudiarla, convolare a seconde nozze con Barbara Wooten e fuggire con la famiglia a Jacksonville, dove la nuova moglie, dipendente dell’American Express, era stata assegnata. Barbara instaurò con Udonis un rapporto fortissimo e fu l’ancora di salvezza del giovane che nel frattempo fece sfracelli con i Wolfson Wolfpack diventando uno dei migliori big man dello stato.

Nel 1996 Barbara ottenne una promozione che la riportò a Miami e Udonis, oggetto del desiderio di tutte le scuole della contea, venne reclutato dalla Miami Senior High, uno dei licei più importanti nel panorama cestistico della Florida che trascinò assieme al compagno di squadra Steve Blake a due titoli nazionali, perdendo la miseria di 2 partite sulle 70 disputate in due anni. Quella squadra allenata da Frank Martin era chiamata il “Dream Team della Florida” e per mettere le mani su tutto quel talento il liceo aveva infranto alcune regole della FHSAA – Florida High School Activities Association, ovvero l’organizzazione che gestiva e promuoveva i campionati studenteschi – tanto da vedersi revocato il titolo del 1998.

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Brent Wright, Steve Blake, Udonis Haslem e Sylbirin Robinson. i “Fab Four” della Miami Senior High

Nel frattempo il nome di Haslem era annotato sui taccuini di ogni ateneo importante ma il suo migliore amico e compagno di squadra alla Miami Senior High, tale Brent Wright, lo convinse a seguirlo all’Università di Florida della vicina Gainesville dove fu assieme a Mike Miller uno dei freshman più interessanti del college basket.

In quell’anno, tra i banchi di scuola di Florida conobbe Faith Rein, la donna della sua vita, con cui convolerà a nozze nel 2013 dopo 14 anni di fidanzamento e 2 figli. Il loro primo appuntamento fu in fast food del campus, con Haslem che si fece offrire la cena.

Nell’anno da sophomore la sua prova su ambo i lati del campo da 13 punti, 8 rimbalzi e 4 assist, ma soprattutto un decisivo fallo di sfondamento subito a 1 minuto dalla fine, permise ai Gators di eliminare la favorita Duke di Shane Battier e Carlos Boozer nella semifinale dei Regionals e spianò la strada per la finalissima contro la Michigan State di Mateen Cleaves, Morrison Peterson e Charlie Bell. In finale Haslem scrisse il suo career high collegiale mettendo a referto 27 punti e ispirando la rimonta di Florida, sotto di 16 nel primo tempo, prima di uscire per falli a 12 minuti dalla fine, in totale trance agonistica, precludendo così ai Gators il loro primo titolo NCAA.

Haslem a canestro con la maglia di Florida
Haslem a canestro con la maglia di Florida nella finale contro Michigan State

In 4 anni alla corte di Billy Donovan ha giocato 130 partite, segnato 1781 punti e catturato 831 lasciando il college come leader ogni epoca in partite giocate e terzo di sempre per punti segnati, ma nel draft del 2002 venne snobbato da tutte e 29 le franchigie NBA. Il motivo? Era 204 cm per 136 kg, troppo basso per giocare centro e poco atletico per giocare ala forte.

Fece un provino con gli Atlanta Hawks poco prima del training camp ma venne scartato e fu così che venne spedito dal suo agente Jason Levien (oggi proprietario di minoranza dei Memphis Grizzlies) in Francia allo Chalon Sur-Soane dove ancora arrabbiato per essere stato respinto dalla NBA, e non a suo agio con la cucina francese, perse quasi 25 chili in appena 6 mesi, iniziando un duro regime di allenamento individuale, mangiando un solo pasto al giorno e rigorosamente da Mc Donald’s. Quello fu un anno importante per Udonis che temprò il proprio carattere e forgiò in Borgogna la propria forza di volontà.

Udonis Haslem appena arrivato in Francia... e a fine stagione.
Udonis Haslem appena arrivato in Francia… e a fine stagione.

Quando tornò in America gli addetti ai lavori non credevano ai loro occhi, pensavano fosse consumato da qualche malattia. Giocò una summer league con i San Antonio Spurs e un’altra con i Miami Heat, buttando in campo una ferocia inaudita.

Impressionò così tanto un giovane Erik Spoelstra, al tempo assistente allenatore e addetto allo sviluppo dei giocatori, da strappare un biennale parzialmente garantito. Il giorno in cui firmò il contratto Barbara invitò tutti gli amici di Udonis a casa per festeggiare il figlio acquisito che stava per coronare il suo sogno di giocare nella NBA e lo stava per fare vestendo la maglia della sua città. Il giorno dopo Udonis chiamò David Thorpe, ex assistente di Donovan e colui che lo aveva reclutato a Florida 5 anni prima – oggi analista per ESPN, scout NBA, allenatore privato di numerose star NBA – e i due si rinchiusero in palestra.

Thorpe gli disse che per avere un futuro nella lega avrebbe dovuto tirare giù rimbalzi e fare canestro dai 5 metri, ovvero i suoi punti deboli.

Escogitò per lui un esercizio particolare: prese una palla da basket e la gonfiò così tanto che rimbalzava il doppio del normale, quindi tirava a canestro e ordinava a Haslem di prendere il rimbalzo prima che il pallone toccasse terra. Ovviamente il pallone, così gonfio e fuori controllo, disegnava traiettorie impronosticabili che a volte lo facevano schizzare anche oltre la linea dei tre punti. Haslem odiava quell’esercizio, ma seguendo le indicazioni di Thorpe affinò il suo istinto e nacque in lui la consapevolezza che ogni rimbalzo sarebbe stato suo se avesse lottato per prenderlo.

In più spese ore e ore a sistemare la meccanica di tiro, ripetendo un infinità di volte il movimento di rilascio della palla fino a che un giorno non segnò in jumper 50 canestri in fila dal gomito destro.

Il primo giorno di training camp fu uno spettacolo che lasciò sbigottito pure uno come Pat Riley: Haslem lottava su ogni pallone tanto che lo staff tecnico gli vietò di giocare la partitella finale per il rischio che potesse fare male a qualche veterano. La grinta e la durezza furono le doti che gli permisero di fare la squadra, oltre alla sua capacità di tirare giù rimbalzi su rimbalzi e segnare con il piazzato. Proprio come gli aveva detto Thorpe.

Quel fatidico 28 ottobre non solo debuttò nella NBA, ma lo fece da ala forte titolare. In quell’anno a Miami si respirava aria nuova: Pat Riley per la prima volta in 18 anni si era fatto da parte ed aveva messo al timone Stan Van Gundy. In estate avevano perso Alonzo Mourning ma era arrivato dal mercato dei Free Agent Lamar Odom e dal draft Dwyane Wade, con cui da subito sviluppò un forte legame. Sotto canestro Udonis doveva lottare contro Brian Grant, Loren Woods e Samaki Walker per racimolare minuti ma li prese tutti a calci nel sedere e chiuse la stagione da rookie con quasi 25 minuti, 7.3 punti e 6.3 rimbalzi di media che gli valsero la nomina nel secondo quintetto delle matricole, quelle del draft 2003.

Nell’estate del 2004 arrivò Shaquille O’Neal e per fargli posto gli Heat smantellarono la squadra che pochi mesi prima aveva raggiunto le semifinali di conference sorprendendo tutti. Via Odom, Caron Butler e Brian Grant – ovvero 3/5 dello starting five – Haslem venne promosso in pianta stabile in quintetto ed al fianco di Shaq produsse 10.9 punti a gara conditi da 9.1 rimbalzi di media. Il suo tiro da fuori, rifinito con le lunghe sessioni in palestra con Erik Spoelstra, era diventato un’arma letale che si completava alla perfezione con il gioco in post basso di O’Neal. Miami arrivò a un passo dalla prima finale NBA della propria storia schiantandosi in gara 7 delle finali di Conference contro i Detroit Pistons, giocando gara 6 senza Wade e gara 7 con le due star in pessime condizioni fisiche.

Quegli Heat erano però incompleti quindi in estate Pat Riley si chiuse nel suo ufficio e riemerse solo dopo aver portato a Miami Antoine Walker, James Posey, Jason Williams e Gary Payton. Con tutto quel talento e quelle teste calde, quella squadra era una bomba a orologeria pronta ad esplodere. Dopo un paio di mesi Van Gundy perse il controllo dello spogliatoio e Riley scelse di tornare in panchina convincendo Alonzo Mourning, nel frattempo tagliato dai Toronto Raptors, a tornare a vestire la casacca degli Heat. Haslem mantenne il posto di titolare, nonostante la concorrenza nel ruolo, e quando giocava in coppia con Mourning tirare sotto il canestro degli Heat era un’impresa ardua per tutti. Nei playoff gli Heat ebbero qualche difficoltà contro i Bulls, spazzarono via i Nets dopo aver perso gara 1 e in finale di Conference si presero la rivincita contro i Pistons, eliminati in 6 gare.

Per la prima volta nella storia della franchigia gli Heat volarono in finale NBA e ad attenderli c’erano i Dallas Mavericks di Dirk Nowitzki. Le prime 5 furono un incubo per Haslem che venne ridicolizzato dal tedesco e in attacco non andò mai oltre i 8 punti di gara 3, anche perchè durante i playoff si era infortunato a una spalla. Ma in gara 6, ferito nell’orgoglio e deciso a riscattarsi, UD giocò una partita perfetta, difendendo come mai nessuno prima d’ora aveva difesa su Dirk, che sudò ogni singolo metro conquistato mentre Haslem lo spingeva, lo picchiava, gli metteva le mani addosso e lo portava a prendersi tiri fuori equilibrio anche per i suoi standard, sempre al limite del fallo, completando un lavoro difensivo ineccepibile.

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Il trattamento Haslem

In attacco si eresse a secondo protagonista della partita dietro ai 36 punti di Wade griffando 17 punti, 10 rimbalzi e alcuni canestri di capitale importanza dal gomito nei momenti clou del macht. Per Haslem quello fu il punto più alto della carriera: protagonista nella gara decisiva per portare la sua città al titolo NBA.

I 4 anni successivi furono avari di soddisfazioni per i Miami Heat, che dopo essere stati stracciati al primo turno di Playoff dai Chicago Bulls nel 2007, mancarono i playoff l’anno seguente detenendo uno dei peggiori record della lega, vivendo altri due anni di transizione in cui Wade e Haslem – gli unici reduci del titolo del 2006 assieme a Dorrell Wright – furono i leader tecnici ed emotivi del gruppo guidato in panchina dal neo-coach Erik Spoelstra. In quegli anni molte squadre telefonarono a Pat Riley chiedendo di Haslem, ma l’ex coach dello Showtime ha rispedì prontamente al mittente tutte le trade. Ieri come oggi Udonis era un punto fermo degli Heat.

Poi nell’estate del 2010 ci fu la “The Decision” in cui LeBron James annunciò al mondo il suo arrivo a South Beach per congiungersi agli amici Wade e Chris Bosh. Udonis Haslem quell’estate divenne Free Agent e ricevette offerte multimilionarie da parte dei Denver Nuggets, dei Dallas Mavericks e dei New Jersey Nets. Dwyane Wade riuscì a convincere Bosh e James a ridursi di qualche milione l’ingaggio per dare modo a Pat Riley – che nel frattempo aveva firmato anche il suo ex compagno di squadra e di stanza ai Gators Mike Miller – di trattenere l’amico fraterno. Udonis restò quindi a Miami siglando un accordo quadriennale da 20 milioni di dollari complessivi, lasciando sul piatto 14 milioni garantiti in più che gli avevano offerto le pepite del Colorado. I soldi non erano un problema, ne aveva già guadagnati a sufficienza gli anni precedenti, ma soprattutto voleva rimanere a casa per stare vicino a sua madre.

Con Debra Haslem, la madre biologica, Udonis aveva riallacciato i rapporti nel 2001, l’aveva perdonata ed era tornata a far parte della sua vita stringendo anche un fortissimo legame con la matrigna Barbara. Si era ripulita dall’abuso di droghe e raccontava la sua storia nei centri di recupero per tossicodipendenti ma nel 2009 si ammalò di cancrò. Il figlio le stette vicino, la portò dai migliori medici dello Stato che la sottoposero ad ogni tipo di cura conosciuta ma nell’estate del 2010 si spense tre le sue braccia. Per Udonis fu un duro colpo perchè il destino si era già accanito su di lui: nel 2008 perse la sua nonna materna, un altro dei suoi punti di riferimento familiari, e l’anno dopo un tumore si portò via anche Sam Wooten, suo fratellastro e suo migliore amico.

L'infortunio di UD
L’infortunio di UD

Quell’anno non iniziò per niente bene, gli Heat incontrarono molte difficoltà nelle prime 3 settimane di regular season e Udonis Haslem si ruppe un tendine del piede sinistro che lo costrinse a 6 lunghi mesi di stop. Giocò solo le prime 13 partite di stagione regolare e bruciando i tempi di recupero rimise il piede in campo per in gara 4 delle semifinali di Conference contro i Boston Celtics.

Fu però in una drammatica gara 2 di Finale di Conference contro i Chicago Bulls avanti 1-0 nella serie che Haslem tornò effettivamente a incidere, con 13 punti e 5 rimbalzi uscendo dalla panchina per portare una carica di energia talmente preziosa da girare l’inerzia della gara a favore degli Heat, che da lì in poi avrebbero preso la confidenza necessaria per vincere 4 partite a fila e raggiungere per la seconda volta nella loro storia la Finale NBA, ancora una volta contro i Dallas Mavericks. Quegli Heat tuttavia non erano maturi per vincere e persero malamente una serie che fino all’inizio del 4° quarto di gara 2 comandavano abbastanza agevolmente.

Nei giorni successivi la debacle contro i Mavs Udonis decise di tagliarsi le treccine, e come Sansone sembrò perdere tutti i suoi poteri: l’infortunio al piede aveva restituito un giocatore atleticamente differente, ed il suo declino fisico lo ha portato a un ruolo sempre più marginale nelle rotazioni degli Heat. Negli ultimi 3 anni ha perso il posto da titolare, si è adattatato a giocare fuori ruolo, ha alternato gare da 30 minuti ad altre in cui è entrato solo nel garbage time, è stato a guardare i compagni dalla panchina ed ha accettato i “DNP” senza mai fiatare. Avrebbe potuto scontentarsi del trattamento ricevuto, ma Mr 305 non è quel tipo di giocatore bizzoso che vuole essere sempre al centro dell’attenzione. Ha sempre anteposto il bene della squadra davanti al suo, ma quando è stato chiamato in causa ha sempre risposto presente.

Come in gara 4 delle semifinali di Conference del 2012 con gli Heat impegnati in una delicata gara 4 sotto 2-1 nella serie contro i Pacers a Indianapolis, reduci da una brutta sconfitta con il peggior Wade di sempre in maglia Heat e senza Bosh, che si era stirato i muscoli addominali alla fine del primo tempo in gara 1. Durante uno scontro a rimbalzo si procurò un taglio al sopracciglio a 9 minuti dalla fine ma si rifiutò di andare a farsi ricucire e il trainer degli Heat, Jay Sibol, gli chiuse la ferita alla meglio, con un vistoso cerotto che praticamente non gli permetteva di aprire l’occhio destro. I Pacers vincendo quella partita avrebbero ipotecato la serie e Haslem fino a quel momento era stato pressochè invisibile ma gli Heat stavano faticando in attacco perchè a parte James e Wade nessun altro riusciva a vedere il canestro. Haslem nel giro di 3 minuti piazzò 4 canestri in jumper che girarono la partita a favore degli Heat regalando alla truppa di Spoesltra una vittoria pivotale nell’economia della serie.

La partita successiva all’American Airlines Arena vennero distribuiti cerotti bianchi che ogni tifoso Heat si mise sull’occhio destro per omaggiare la grande partita del capitano che in quella gara, dopo che Dwyane Wade fu atterrato da un fallaccio di Tyler Hansbrough, pochi possessi dopo vendicò il compagno con un fallo terminale sul povero Psyco T. Perchè quando un compagno di squadra finisce a terra va vendicato.

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L’anno successivo, sempre contro i Pacers, ma stavolta in Gara 3 della Finale di Conference mise 17 punti grazie a un provvidenziale 8/9 al tiro, ripetendosi 4 giorni dopo con un altro 8/9 al tiro infiammando il pubblico di South Beach quando a metà 3° quarto, per prendere le difese di Mario Chalmers, andò faccia a faccia contro David West, uno dei giocatori più duri della lega, cambiando ancora una volta l’inerzia di una gara in mano agli avversari.

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Il suo ruolo nello spogliatoio tuttavia è rimasto sempre il solito. Negli ultimi 4 anni gli Heat sono stati sul campo la squadra di LeBron James, Dwyane Wade e Chris Bosh, ma in spogliatoio quando parlava Udonis nessuno apriva la bocca e tutti stavano ad ascoltare quello che aveva da dire. Nei momenti più difficili dell’era James, è sempre stato Haslem a ricomporre i pezzi e mettere al suo posto il prescelto nei rari momenti in cui perdeva la bussola. Lui e Wade, i due “HeatLifer”, sono stati la guida emotiva per decine di giocatori che nel corso degli anni si sono avvicendati tra quelle quattro mura da cui non è mai filtrata una frizione, una polemica, una parola fuori posto tenendo unito il gruppo e facilitando il lavoro a Erik Spoelstra, che con due pretoriani del genere ha potuto senza troppe pressioni creare quella formidabile macchina da basket che sono stati i Miami Heat dal 2010 al 2014.

Questa estate, diventato nuovamente Free Agent, il suo rinnovo è stato quasi automatico, anche perchè nessuno si sarebbe aspettato di vedere Haslem con un maglia diversa da quella degli Heat che onora da 12 lunghi anni e che un giorno sarà appesa sul soffitto della American Airlines Arena, accanto a quella di Alonzo Mourning, che nel novembre del 2012 ha scavalcato come leader ogni epoca nei rimbalzi catturati nella storia della franchigia. Tra l’altro diventando il primo giocatore mai scelto al draft NBA a riuscire nell’impresa.

Nel frattempo continuerà a portare sul campo da basket la sua proverbiale cattiveria agonistica per altri due anni almeno, prendendo sfondamenti, sbucciandosi i gomiti in difesa e buttandosi a rimbalzo come se la sua vita dipendesse da questo. Come ha sempre fatto da quando ha preso in mano un pallone da basket oltre 20 anni fa.

Questo pezzo è stato pubblicato in anteprima assoluta sul numero 3 di  HeatNation, la fanzine italiana dedicata ai Miami Heat.